Tempo di lettura: 3 minutiIL RINTARDORE
Nel bar di Silvano, il tempo decide di fermarsi alle sette e quattordici.
Quando arriva un misterioso uomo con un aggeggio chiamato “rintardore”, la realtà comincia a muoversi… ma nella direzione sbagliata.
un racconto di Paolo Rocchigiani
Il bar di Silvano apriva sempre alle sette, o almeno così diceva l’insegna rossa al neon sopra la porta. In realtà, chi lo frequentava da anni sapeva bene che quell’orario era più un’ipotesi che un impegno. Alle sette e un quarto, sette e venti al massimo, Silvano alzava la serranda, accendeva la macchina del caffè e imprecava borbottando piano, come per augurarsi una buona giornata.
Quella mattina, però, c’era qualcosa di diverso.
Le lancette dell’orologio appeso dietro al bancone non ne volevano sapere di muoversi. Le sette e quattordici restavano immobili, eppure fuori, il sole cambiava colore, le ombre si allungavano, e la piazza si riempiva del consueto chiacchiericcio.
Silvano scrollò le spalle. «Sarà la batteria.»
Ma quando tirò fuori dal taschino il suo inseparabile cimelio di famiglia, trovò la stessa ora.
Sette e quattordici.
Precise. Ferme.
Il primo cliente della giornata fu il solito Piero, quello che viveva di pensione e biglietti del “Gratta & Vinci”.
«Oh, Silvà, ma oggi apri prima? Mi sembrava tardi… o presto? Boh.»
«Forse l’orologio s’è scordato di vivere,» rispose il barista, versando il caffè.
Poi entrarono altri. Tutti con lo stesso sguardo perplesso, ognuno con un orario diverso in mente.
Per qualcuno erano le sei, per altri le otto, per altri ancora mezzogiorno.
Le campane della chiesa suonavano, ma nessuno capiva quante volte.
Fu allora che comparve il tipo col cappello di feltro. Nessuno lo aveva mai visto, ma tutti giurarono che sembrava di conoscerlo.
Si appoggiò al banco, tirò fuori un piccolo aggeggio di ottone con tre quadranti e lo posò accanto al cucchiaino.
«Lo chiamano rintardore,» disse con voce calma. «Serve a correggere i tempi che vanno storti.»
Silvano rise. «Allora mi serve una fornitura per tutta la settimana.»
«Non credo. Una volta attivato, funziona per conto suo.»
Girò una levetta.
Un suono metallico, come un orologio che tossisce, riempì l’aria.
E tutto si spense.
Il frigo smise di vibrare, il vapore della macchina si pietrificò, il latte sospeso a metà del getto divenne una colonna bianca immobile. Anche la luce smise di pulsare. Solo Silvano e lo sconosciuto restavano in movimento.
«Che… che succede?» balbettò il barista.
«Niente di grave. Il tuo paese aveva corso troppo. Sto solo rimettendo le cose in ordine.»
Attraverso la vetrina immobile, si vedeva la piazza come in una fotografia: il giornalaio col giornale a mezz’aria, il cane a un passo dal marciapiede, il prete col rosario bloccato a metà preghiera.
«Ma chi diavolo sei?»
Lo sconosciuto sorrise: «Uno che arriva sempre puntuale. Troppo, a volte.»
Poi prese il suo rintardore, lo fece scattare una seconda volta e il mondo riprese a girare, ma… al contrario.
Le parole si risucchiarono, il caffè tornò nell’ugello della macchina espressa, la gente indietreggiò nelle proprie posizioni. Silvano si ritrovò con le mani vuote, la serranda di nuovo abbassata e il neon spento.
Controllò l’orologio: sette in punto.
Fuori, il cielo era tornato grigio come se il giorno non fosse mai cominciato.
Dalla strada arrivò solo un’eco lontana, la voce di Piero che gridava: «Oh, Silvà, oggi non apri?»
Silvano si accese una sigaretta e guardò la serranda chiusa.
Poi disse piano, come a se stesso:
«Forse è meglio così. Magari oggi non è giornata.»
Dietro di lui, nell’ombra del bar, l’orologio da parete fece un singolo, impercettibile tic — e riprese a camminare, un secondo indietro rispetto a tutto il resto del mondo.
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Paolo Rocchigiani
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